Il sole delle sette di sera mi acceca. Entra violento dal finestrino, subito dopo Fulham, quando si esce di nuovo all’aria aperta. Amo il calore di questo sole e i colori che riempiono questo momento. Io amo. Amo la sensazione di essere dentro una vecchia foto polaroid, i cui colori sono oramai sbiaditi e tendono ad una unica tonalità, tra leggere sfumature. Pochissima nitidezza, contorni spappolati, aberrazioni cromatiche. Ma rimane sempre una bella immagine, molto carica di energia, soprattutto perché il corpo, e l’animo, ne ha veramente bisogno, dopo una giornata in ufficio. Il corpo sta zitto, non chiede ristoro, lo aspetta. “Tutututu” come quando il dottor Freeman ricarica la sua HEV suit...Aaah fully recharged.
Potesse l’uomo essere capace di riprodurre quell’immagine, diventerebbe un santino da tenere in portafoglio o dentro il cassetto. Con proprietà taumaturghe capaci ovviamente di alterare la percezione della realtà. Quando la banalità dispensa felicità.
Infatti quasi danzo, leggiadro, circondato da mille riflessi, mi muovo, mi emoziono ma in realtà è come se tutto rimanesse fermo. Addirittura le stazioni successive arrivano all’improvviso, e se non fosse per la bellezza del fiume che si manifesta davanti a me e che mi risveglia, correrei il rischio di arrivare a Wimbledon. Quella massa di acqua schifosa ha il suo fascino, ogni tanto. Un fiume vivo il Tamigi. E quindi ogni tanto pure lui ha bisogno di sedurre.
E il profilo di Puney Bridge, al tramonto, i suoi lampioni che si ergono dritti tra gli autobus a due piani, i riflessi e le ombre sull’acqua sono già piccoli frammenti, ricordi che porterò dentro. Magari non un tatuaggio, ma una cartolina che, ogni tanto, amerò guardare, incurante di rovinarla.
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